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AAA autostima cercasi…

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“L’autostima è il processo soggettivo e duraturo che porta il soggetto a valutare e apprezzare se stesso”…ci perdonerà Wikipedia ma dissentiamo da questa definizione, a dimostrazione che non sempre tutto quello che si trova su internet sia così utile…

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Cooley e Mead definiscono l’autostima come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.

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Quindi una definizione che ci sembra più appropriata potrebbe essere: “autostima come processo relazionale, variabile, tramite il quale si descrive una valutazione della persona”.

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Può essere quindi una valutazione più o meno positiva.

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“Quel ragazzo ha una bassa autostima”…quante volte lo sentiamo…una sorta di panacea che spiega tutti i mali…va male a scuola? Ha bassa autostima. Risponde male a casa? Ha bassa autostima. Non trova una ragazza? Ha bassa autostima…Se il problema è tutto lì, beh la soluzione è ovvia…che se la alzi sta benedetta autostima!

Ma è qualcosa di così ovvio ed automatico, basta dirlo per farlo? Ahinoi non proprio. Abbiamo visto che l’autostima non è legata semplicemente all’individuo, ma deriva anche dalla sfera relazionale/sociale in cui è inserito.

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Come gli altri ci vedono, l’immagine che ci creiamo nel relazionarci e differenziarci dagli altri (Kelly, 1995).

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Immaginiamoci tutto questo nella nostra vita, sin da quando eravamo piccoli: quanti sguardi ci hanno guardato, quante considerazioni abbiamo assorbito, quante volte ci siamo visti allo specchio.

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Capiamo adesso come mai si dia tanto importanza al contesto familiare, al stabilire un rapporto positivo con i bambini sin dai primi attimi di vita, tutti elementi che nel tempo andranno a costruire e definire la nostra autostima.

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E quando questi sguardi non sono positivi? O non ci sono stati o non ne abbiamo conoscenza? Pensiamo ad esempio alle storie adottive, dove appunto non possiamo sapere esattamente cosa è avvenuto e comunque un primo sguardo genitoriale è stato quello di rifiuto, di abbandono…che trasmette un messaggio forte “io non sono stato voluto”, tradotto nella mente del bambino in un “probabilmente perché non valgo”.

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E’ facile immaginare che il bagaglio di esperienze e relazioni non abbia contribuito a formare una autostima solida e funzionale.

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Da cosa possiamo notarlo?

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E’ presente una scarsa capacità di valutazione appunto, non solo di se stessi ma anche di ciò che ci circonda. Se non sappiamo stimare non sappiamo nemmeno come approcciare un dato elemento, una situazione, una relazione non riuscendo a quantificare e comprenderli.

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Cattiva gestione degli eventi, che come un ciclo, ricade sulla capacità di sentirsi efficaci e quindi indebolendo ulteriormente la stima di chi ci circonda e che abbiamo di noi. “Non ne fai una giusta” “sei sempre imbranato”, “lascia fare a me che è meglio”.

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Un divario ampio tra ciò che crediamo di essere e quello che vorremmo essere: tra reale ed ideale, dove ne risultiamo sempre sconfitti. La realtà circostante perde anche di attrattiva, in quanto poco gestibile e governabile. Ci si vive come in balia degli eventi e degli altri.

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Come risollevarsi da questa situazione?

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Come indicato precedentemente le relazione e lo sguardo altrui è molto importante.

Gli obiettivi sono molteplici:

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  1. Migliorare la capacità di problem solving, ossia di risolvere le situazioni problematiche. Questo permette di riprendere coraggio in se stessi, di rivedersi come efficaci;

  2. Imparare a comprendere le cause degli avvenimenti e quindi attribuirne il giusto peso, per non viversi più “vittime” di un fato ingovernabile;

  3. Individuare persone e situazioni esterne che ci mettano alla prova nella giusta misura, per imparare a dosare le energie, trovare fiducia e non venire schiacciati;

  4. Essere apprezzati in quello che facciamo, senza eccedere nelle lodi gratuite, che rischiano di creare ulteriori false immagini di noi e delle nostre capacità;

  5. Comunicare in modo adeguato, in due modalità. Primo attivare un dialogo interno che permetta di riflettere, osservare dal giusto punto di vista quello che ci accade e che siamo, che ci trasmetta una immagine positiva di noi. Secondo ricevere dagli altri comunicazioni utili per migliorarsi e comprendere ciò che è parte di noi e cosa è legato alle situazioni (un fallimento scolastico visto come un “sei stupido”, immagine di sé deleteria e lapidaria, o legato ad avvenimenti gestibili in modo diverso: poco studio, mancata comprensione del compito, tensione…).

 

Come trasmettere tutto questo ai nostri figli? Soprattutto in chi parte da una situazione deficitaria?

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Primo ruolo fondamentale è quello dei genitori, per poi allargarsi ai familiari, agli amici e le persone importanti nella vita della persona. Proviamo per ogni punto precedente a trovare degli esempi pratici:

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  1. Organizziamo delle attività a casa dove nostro figlio possa sperimentarsi e raggiungere un risultato positivo. Anche i piccoli compiti domestici possono andare bene, qualcosa che renda autonomi ed al contempo si porti a termine, con le proprie forze. Il prendersi cura di qualcosa o qualcuno aiuta a viversi in modo positivo, anche agli occhi di chi ci circonda;

  2. Davanti ad episodi difficili da comprendere o negativi è bene soffermarsi un attimo a riflettere, aumentando così la sfera della complessità. Comprendere come un evento possa essere legato a delle conseguenze, prevedibili e possibilmente costanti. Dire a voce per poi non passare all’azione non aiuta: “se non metti in ordine la camera non uscirai per un mese!” Poco credibile come indicazione. Trovare dei messaggi chiari, che siano poi facilmente perseguibili. Gli effetti devono essere prevedibili, chiari e concreti;

  3. Insieme a nostro figlio aiutarlo a comprendere quali avvenimenti o situazioni sono effettivamente perseguibili, come e quando, pianificando magari i passaggi da fare per ottenere i risultati. Dare una mano è legittimo in fase di progettazione, poi nell’azione ben venga l’autonomia. Esempio: se deve partecipare ad una gara atletica è bene allenarsi, prepararsi alla competizione ed avere chiaro l’obiettivo in base alle proprie risorse. Fare del proprio meglio non sempre porta alla vittoria. La delusione è legittima, ci mancherebbe, ma è importante focalizzarsi sull’obiettivo: vincere a priori o conoscere meglio se stessi, le circostanze ed i propri limiti?

  4. E’ bene incentivare e fare il tifo per i propri figli, senza necessariamente trasformarli in dei supereroi. Valorizzare i risultati raggiunti, sottolineando le buone strategie utilizzate. I nostri figli non hanno bisogno di sentirsi i migliori, ma di essere sostenuti e valorizzati dai propri cari. Non sono dei trofei da esibire o delle delusioni da nascondere;

  5. Stiamo attenti a quello che diciamo e come lo diciamo. E’ un esercizio difficile nella quotidianità, ma dopotutto il nostro linguaggio forma il nostro mondo. Se possibile aboliamo paroline come “sempre “ e “mai”: “sei sempre il solito, non fai mai niente”…non aiutano a valutare e soppesare le situazioni e la realtà. Poniamo attenzione al peso di certi commenti che facciamo, aiutare a comprendere ciò che è legato alla situazione e in che modo: “Sei insopportabile” “Oggi ho poca pazienza ed il tuo comportamento mi irrita” sono affermazioni diverse, producono diversi risultati. Nella seconda introduciamo una situazione ambientale, “noi”, ed una variabile trasformabile, “il comportamento, l’azione compiuta” dal soggetto. Diventa più chiaro come muoversi se si vogliono cambiare le cose.

 

L’autostima è un bene che si costruisce nel tempo insieme a chi ci circonda.

Non viviamo nel mondo delle fate, non ci possono essere solo situazioni positive.

Evitare le delusioni non aiuta: comprendere e analizzare i risultati delle proprie azioni sì.

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www.formicaelefante.it

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